LA RIAPERTURA DEL CASO PORTEREBBE FANGO SU UN VESCOVO, PETTEGOLEZZI E DIVISIONI NEL CLERO?
PREMESSA Il 13/05/1960, Adelaide Roncalli scriveva una lettera a Papa Giovanni XXIII confidando tutto il suo dramma. Nello stesso periodo, il Papa riceveva dal vescovo di Faenza, mons. Battaglia, anche a nome di altri confratelli, l’arciv. Egidio Bignamini di Ancona e il vescovo bergamasco Tarcisio Benedetti di Lodi, un esposto “inteso ad ottenere la riapertura dell’istruttoria sugli asseriti fatti prodigiosi di Ghiaie di Bonate. L’08/07/1960, il Papa rispose in questi termini a mons. Battaglia:
"Riservata 8-VII-1960 Cara Eccellenza, siamo sempre ben uniti di pensiero, di cuore, di preghiera. Circa l'affare Ghiaie comprendete che si ha da cominciare non dal vertice, ma dal piano: e non toccare chi deve pronunciare non la prima ma l'ultima parola. Più che di sostanza, qui devesi tenere conto delle circostanze, che vanno studiate e tenute in gran conto. Ciò che vale in “subiecta materia” è la testimonianza della veggente: e la fondatezza di quanto ancora asserisce a 21 anni ed in conformità alla sua prima asserzione a 7 anni: e ritirata in seguito alle minacce, alle paure dell'inferno fattele da qualcuno. Mi pare che insista quel terrore di quelle minacce. Comunque V. S. comprende che non è pratico, né utile, che la prima mossa per una revisione venga dal sottoscritto a cui spetta il “verbum” per la Congregazione dei Riti, o di altro dicastero, che a suo tempo "faciat verbum cum S.S." ecc. Scusate la semplicità della mia parola. E statemi sempre bene “in laetitia et in benedictione” anche se "dies mali sunt. Aff.mo Jo. XXIII".
In questa lettera, il Papa, che era dunque a conoscenza di certi fatti, consigliava di prendere un’altra strada, affinché fosse il prefetto o segretario del competente dicastero a parlarne al Sommo Pontefice. Suggeriva anche di tenere in gran conto di ciò che aveva affermato per la prima volta la veggente settenne, di quanto asseriva ancora a 21 anni e di scoprirne la fondatezza. Conoscendo bene il punctum dolens dell’”affare Ghiaie” (glielo aveva scritto personalmente Adelaide Roncalli il 13/05/1960), il Papa affermava, senza mezzi termini, che la bambina settenne aveva ritrattato “in seguito a minacce, alle paure dell’infermo fattele da qualcuno” e che il “terrore di quelle minacce” sussisteva ancora.
Se a Parigi il Nunzio Apostolico era su posizioni negative e al patriarcato di Venezia si accontentava di pregare perché si facesse luce sulla “causa” della Madonna circa i fatti di Ghiaie, a Roma il Papa “andava più in là” ed incaricava, non per via burocratica, ma tramite il suo segretario particolare (il che è significativo) di contattare mons. Carozzi Gugliemo (1880-1970), prevosto di Seriate (Bg), condiscepolo di Angelo Roncalli al seminario di Bergamo e di Roma. In parole chiare, il Papa voleva una risposta che non fosse di parte, né d’ufficio, ma presumibilmente indipendente, obiettiva. Ciò significava che Papa Giovanni non era sulla negativa come a Parigi. Ora, a Roma, era più informato e più libero nella ricerca del vero. Secondo Mons. Capovilla, “Ponendosi al di sopra delle parti, mons. Carozzi in data 03/09/1960, sconsigliava, almeno per il momento, la riapertura della istruttoria”. Dunque era evidente che esisteva materia del contendere per quell’”affare” e che mons. Carozzi non escludeva che, in un futuro più o meno remoto, la riapertura dell’istruttoria si sarebbe potuto anche fare, ma per ora, no.
Perché mai mons. Carozzi sconsigliava, almeno per il momento la riapertura dell’istruttoria? Che competenza aveva in materia? Dove si era documentato? Da che fonti aveva attinto le notizie per formulare un tal giudizio? Che attendibilità potevano avere certe sue affermazioni visto che si era “disinteressato dal fatto”, non era “mai andato sul luogo”, e non conosceva “la motivazione della sentenza”? Perché una nuova istruttoria avrebbe gettato una “manata di fango sulla venerata memoria del vescovo Bernareggi” ed avrebbe suscitato “un cumulo di pettegolezzi e di divisioni tra il clero”?
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Ecco il giudizio che mons. Carozzi inviò al Papa:
03/09/1960 “Ghiaie di Bonate: mi sono disinteressato dal fatto e non sono mai andato sul luogo. So però: a) Che il parroco delle Ghiaie don Vitali era prudentemente favorevole; b) il Parroco di Bonate don Paleni apertamente contrario; c) il clero della diocesi, chi pro, chi contro l’apparizione; d) ho vista la bambina Roncalli, veggente, scendere dalla visita del vescovo Bernareggi; il buon can. B. era infatuato, e forse il suo entusiasmo ha influito sul Vescovo, il quale: e) ha dato l’incarico al comm. Berzi di acquistare il terreno adiacente al luogo delle supposte apparizioni; non so se ciò sia stato fatto; f) la massa popolana e le suore erano entusiaste, ed hanno tenuto un po’ duro a visitare il luogo anche dopo il verdetto dell’autorità ecclesiastica; g) paladino del movimento favorevole era il sig. B. A., fratello del compianto condiscepolo don Achille, e marito di una Pedrinelli, sorella del def. don Angelo di Carvico. Il B. fu autore di stampe irriverenti per il vescovo, e astiose contro il sac. prof. Cortesi. h) tra i componenti la commissione che ha dato sentenza negativa, in seguito alla quale il vescovo proibì il culto, vi erano due stimati professori di teologia, uno del seminario di Venegono, l’altro del seminario di Brescia. Non conosco la motivazione della sentenza, né ricordo se sia stata pubblicata su “Vita Diocesana”. i) Ora mai più nessuno parla delle Ghiaie, quantunque non manchi ancora qualche rara passeggiata sul luogo.
Conclusioni: penso che un eventuale supplemento di istruttoria sia pienamente non opportuno: 1° perché non potrebbe dare maggior luce sull’apparizione; 2° getterebbe una manata di fango sulla venerata memoria del vescovo Bernareggi; 3° susciterebbe un cumulo di pettegolezzi e di divisioni tra il clero …
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COMMENTO (a cura del prof. Alberto Lombardoni)
1) UN GIUDIZIO SUPERFICIALE
Tutto qui! L’affare Ghiaie, ancora una volta, veniva liquidato affrettatamente e in modo molto superficiale da una persona a) che non era mai stata a Ghiaie e che si era disinteressata dell’argomento; b) che non motivava il fatto grave che il Parroco di Bonate, don Paleni fosse stato apertamente contrario.(Si ricorda che esistevano forti contrasti perché la Parrocchia di Ghiaie di Bonate era riuscita finalmente ad ottenere la sua autonomia, staccandosi da Bonate Sopra e da Presezzo, e questo fatto non era piaciuto ai parroci del vicinato). c) Non era fatto nuovo che il clero della diocesi fosse chi pro, chi contro l’apparizione; d) In nessun incartamento da me consultato risulta che il can. B. (si tratta di don Berta, segretario del vescovo) fosse infatuato ed avesse influenzato il vescovo Bernareggi. e) Trattandosi di un giudizio al Papa, mons. Carozzi doveva almeno informarsi se il comm. Berzi aveva effettivamente provveduto all’acquisto del terreno adiacente al luogo delle supposte apparizioni. f) i) Queste affermazioni sono inattendibili visto che mons. Carozzi non era mai andato a Ghiaie. Dalle varie testimonianze scritte dai parroci che si sono succeduti a Ghiaie, risulta invece che il flusso dei pellegrini non si è mai arrestato. Peccato che mons. Carozzi non abbia letto le lettere di don Cesare Vitali e il diario di don Italo Duci, entrambi parroci di Ghiaie, perché avrebbe dato un parere diverso. È chiaro che mons. Carozzi riferisce notizie che lui stesso ha avuto da altre fonti e non per esperienza diretta. Se “ora mai più nessuno parla delle Ghiaie”, come mai il Santo Padre s’interessava molto della questione? Voleva dire che l’argomento era all’ordine del giorno e che il Papa aveva ricevute molte pressioni perché riaprisse il caso.
g) Non si capisce perché in questo punto, mons. Carozzi si soffermi sui familiari di B. A (Ballini Achille), dettaglio irrilevante per la causa, affermando erroneamente che Ballini era sposato ad una Pedrinelli, quando invece non era sposato. È vero che lo studioso Ballini portò avanti la causa di Ghiaie e che denunciò nel suo libro “Una fosca congiura contro la storia” (libro messo all’indice), il complotto ordito per affossare le Apparizioni del maggio 1944, ma per quanto riguarda l’accusa di irriverenza verso il vescovo mons. Bernareggi, dobbiamo purtroppo dire che mons. Carozzi non ha letto nulla del Ballini altrimenti avrebbe visto che al capitolo “False accuse a Mons. Bernareggi” (op. cit., pagine 247 ÷ 252) lo studioso prendeva apertamente le difese del suo vescovo.
Se mons. Carozzi fosse stato veramente “sopra le parti”, avrebbe dovuto citare allora anche don Luigi Cortesi, l’inquisitore, che scrisse pagine deliranti ed infamanti contro la piccola Adelaide e la sua famiglia, emise giudizi, trasse conclusioni e scrisse sentenze che non gli competevano.
h) È grave il fatto che mons, Carozzi non conoscesse la motivazione della sentenza, né ricordasse se fosse stata pubblicata. Come poteva emettere un giudizio così importante (richiesto da un pontefice) se non aveva letto nulla? Mons. Carozzi doveva almeno documentarsi prima d’informare il Papa.
Gli argomenti trattati in modo sintetico e superficiale, portati all’attenzione del Papa, sono imprecisi, irrilevanti, e non portano nessuna novità alla causa e, soprattutto non giustificano assolutamente e non documentano il pesante giudizio finale dato da mons. Carozzi.
2) LA RIAPERTURA PORTEREBBE FANGO, PETTEGOLEZZI E DIVISIONI?
Perché era “pienamente non opportuno” il supplemento di istruttoria? Una ridiscussione dell’”affare Ghiaie” avrebbe secondo me chiarito meglio le cose (supposta l’onestà chiarificatrice delle due parti). È evidente che mons. Carozzi la pensava diversamente: il supplemento d’istruttoria avrebbe probabilmente complicato le cose invece di risolverle o in positivo o in negativo. Le due parti avrebbero combattuto ad oltranza e nessuno avrebbe ceduto pro bono pacis. Interessati alla cosa erano grossi nomi della chiesa locale: si sarebbe prodotta una reazione a catena e la discussione si sarebbe protratta a non finire. Del resto, la posta in gioco era nientemeno che il riconoscimento o la condanna di un’Apparizione mariana e la parte che fosse risultata sconfitta in quella sezione d’appello non avrebbe saputo dove nascondere la faccia.
Comunque, leggendo questo primo punto di mons. Carozzi, Papa Giovanni, bergamasco, può aver visto dinnanzi a sé “una gara a scacchi tutta protesa a dar scacco matto al re”. La prudenza gli suggeriva allora di non sottovalutare il primo consiglio dell’amico.
Quanto al secondo punto, ci si chiede come mai quel supplemento d’istruttoria avrebbe gettato “una manata di fango sulla venerata memoria del vescovo Bernareggi?” Affermazione gravissima. Si vuol fare intendere che il Presule era coinvolto colpevolmente nell’”affare Ghiaie”? Che scandali sarebbero emersi dalla riapertura del caso? Che cosa avrebbe potuto buttare fango sulla memoria di mons. Bernareggi? Tutti gli archivi che abbiamo consultato non hanno dato elementi concreti comprovanti le sue responsabilità (salvo che le prove siano celate proprio nell'incartamento dell'Affare Ghiaie depositato in Curia di Bergamo e questo giustificherebbe l'ostinazione dell'attuale Vescovo di Bergamo a non voler aprire agli studiosi quell'archivio). Si sa però che mons. Bernareggi ebbe molto a soffrire per i fatti di Ghiaie e certamente non influì negativamente sulle vicende. È pur vero che firmò un decreto “non consta” dopo aver “preso in attento esame gli studi diligenti e ponderati della Commissione Teologica” nominata proprio da lui come responsabile della diocesi.
La grave affermazione di mons. Carozzi, espressa in modo non dubitativo, lascia intendere dunque che il sacerdote era probabilmente venuto a conoscenza di particolari che, se resi pubblici con la riapertura del caso, avrebbero infangato la figura di mons. Bernareggi. Altrimenti, se non fosse così, quali motivi avrebbero spinto mons Carozzi a voler infangare la figura dell’illustre presule con una simile affermazione?
Dall’analisi approfondita della mole di documenti che ho avuto la fortuna di consultare nei diversi archivi italiani ed esteri, risulta che il caso Ghiaie è stato trattato con grande superficialità e incompetenza e che ci furono gravi irregolarità processuali tali da rendere nullo tutto il procedimento. Chi ha avuto la pazienza di leggere e analizzare in dettaglio l’operato di don Luigi Cortesi, attraverso i suoi libri, definiti da qualcuno “una specie di istruttoria” non può che rimanere colpito dal comportamento poco edificante di quel prete che si è autodefinito “inquisitore” e “accusatore” e che nessuno ha avuto il coraggio di fermare in tempo. Qualsiasi cosa avesse fatto, don Luigi Cortesi doveva essere salvato a scapito dell’innocenza di una povera bambina indifesa. Si sa che l’anno 1944, era un momento difficile per la Curia di Bergamo, perché accanto al governo ecclesiastico, funzionava il commando tedesco, insediato nel seminario. Il noto capitano delle SS, F. Langer, che alloggiava nello stesso palazzo dei professori dove risiedeva don Cortesi, era entrato in forte amicizia con diversi ecclesiastici. Hitler non gradì la profezia sulla fine del conflitto ed intervenne anche lui, tanto che Adelaide corse il grave pericolo della deportazione e forse non solo lei. Anche le autorità politiche e militari, per vari motivi, fecero molte pressioni perché si mettesse immediatamente fine a quelle apparizioni. E poi non dimentichiamo che esisteva anche la massoneria …
Purtroppo mons. Bernareggi era circondato da potentissimi personaggi e anche lui ne fu probabilmente una vittima inconsapevole. Alcuni giunsero persino a mentirgli sull’affare Ghiaie e sull’operato di don Cortesi che, malgrado i divieti del Vescovo di importunare ed interrogare ulteriormente la bambina, continuò imperturbabile la sua opera denigratrice incontrando e tormentando Adelaide per circa 200 volte senza averne le credenziali e all’insaputa del Vescovo e della famiglia Roncalli.
Chissà se mons. Bernareggi avrà veramente letto le opere deliranti «Il problema delle apparizioni di Ghiaie» di don Luigi Cortesi e “La Madonna di Bonate” del prof. Ferdinando Cazzamalli. Temo di no, e probabilmente neanche i suoi successori, visto che hanno dichiarato di non avere letto nulla perché si fidavano dell’operato della Commissione di allora e del parere di chi gestiva l’archivio Ghiaie.
Purtroppo, quasi nessuno ha letto a fondo e seriamente il voluminoso carteggio. Al massimo, si è letto “qua e là” quello che faceva comodo e soltanto per denigrare l’apparizione. È questo il vero dramma di Ghiaie: la poca serietà, l’incompetenza, la superficialità, la non volontà di esaminare seriamente tutte le carte. “È materia di poco conto”, “Si tratta di una devozione mariana così povera di spiritualità ecclesiale”, “Non c’è nulla di storico di quello che scrivono i giornalisti e studiosi” affermerà più volte qualcuno.
Scommetto che nessun vescovo ha letto personalmente il verbale del processo come, probabilmente non lo ha letto nemmeno mons. Chiodi, esperto in diritto canonico, collaboratore di don Cortesi per la redazione dell’Enciclopedia Ecclesiastica, chiamato in segreto, anni fa, ad un supplemento d’indagine; altrimenti si sarebbero resi conto, già dalle prime battute, che il processo era viziato e quindi nullo. Purtroppo, non si è voluto vedere, e le conclusione sono sempre state: “Nessuna irregolarità riscontrata nell’affare Ghiaie!”, “Non c’è nulla di nuovo!”, “Il caso è chiuso dal 1948!”.
È vero, ancora oggi, come sempre, si va dicendo che il caso è chiuso dal 1948 con il decreto negativo del vescovo Bernareggi e la gente ci casca. Ebbene tutti coloro che affermano che il caso è chiuso, non dicono il vero, perché “non consta” significa che non vi sono in quel momento elementi sufficiente per approvare l’apparizione, quindi non ha un valore negativo, ma sospensivo, e quindi il caso è ancora aperto; altrimenti il decreto avrebbe dovuto essere “consta che non” e allora il caso sarebbe stato definitivamente chiuso. Smettiamola d’ingannare la gente e si abbia finalmente il coraggio di affrontare e di dire tutta la verità.
3) UN GIUDIZIO SAPIENTEMENTE PILOTATO? Anche questa volta, viene il sospetto che il giudizio di mons. Carozzi sia stato sapientemente pilotato da Bergamo (e si sa chi c’era sotto) in modo da dissuadere Papa Giovanni XXIII dal riaprire il caso. “Effettivamente nel 1960, mons. Piazzi di ritorno da Roma mi chiese se le carte riguardanti le Ghiaie erano ordinate, perché era sua convinzione che il beato Papa Giovanni avrebbe ordinato di riaprire il processo. Invece l’ordine non venne mai.”, affermò nel 2000, mons. Pesenti, cancelliere della Curia di Bergamo, ad un Consiglio presbiterale in cui si trattava la “questione pastorale dei luoghi di presunte apparizioni”.
E certo che l’ordine non venne! Di fronte al pericolo della spaccature del clero bergamasco, al pericolo di scandali che avrebbero potuto infangare la nobile figura di mons. Bernareggi e suscitare un cumulo di pettegolezzi nel clero, che cosa poteva fare Papa Giovanni? Usare prudenza, prudenza e ancora prudenza! E quindi dovette soprassedere.
Mi rimane però un dubbio! E se le affermazioni di mons. Carozzi, non avessero fondamento? E se tutto fosse stato architettato per dissuadere il Beato Papa Giovanni dal riaprire il caso, che succederebbe? La risposta potrebbe essere in un’espressione attribuita, sembra, proprio al Beato Papa Giovanni: “Andranno tutti a cantare il Miserere a Ghiaie”.
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Fonti: - Archivi privati e riservati. - “Giovanni XXIII – Lettere 1958 – 1963” – Mons. Loris Capovilla. - “Dossier su Ghiaie” , studio inedito di don Attilio Goggi. - “La Vita diocesana”
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